Sullo sgombero dell’ex Telecom

Siamo sgomente e nauseate di fronte all’orrendo spettacolo del potere che fa la guerra dall’alto alla povertà, buttando fuori di casa centinaia di persone nel giro di pochi giorni, da via Solferino all’ex Telecom, proprio alle porte dell’inverno, chiamandola “legalità”. Disgustate e furiose, di fronte a una politica istituzionale che blatera parole come “collaborazione” e sproloquia di “anima” mentre vengono attaccate e colpite le poche esperienze concrete di solidarietà che faticosamente provano a dare un senso all’idea di comunità.

Dopo lo sgombero di Atlantide, il paesaggio di questa città si sta facendo sempre più cupo, con un’intensità che non ci aspettavamo. Ieri un massiccio dispiegamento di forze di polizia e carabinieri ha posto fine all’esperienza di autogestione della ex Telecom di via Fioravanti, un luogo in cui la vera collaborazione sociale aveva preso piede e stava mettendo radici, un luogo in cui convivevano provenienze geografiche e culture diverse. Un’integrazione ben diversa da quella che, spesso e senza successo, le istituzioni cercano di calare dall’alto sulle teste dei migranti.
Evidentemente la collaborazione sociale tanto sbandierata non prevede la presenza di minoranze, siano esse migranti, froce, femministe, lesbiche, trans e punx, specialmente se si autorganizzano, invece di vestire i panni degli “utenti” in attesa di assistenza e tutela.
Nelle ultime ore si parla di dare priorità alle famiglie, o alla famiglie con residenza a Bologna: rifiutiamo questa logica che distingue forme di vita degne di protezione e altre che possono essere trasferite in dormitorio e poi sbattute in strada sulla base dello stato civile o del possesso di un pezzo di carta.
Così come Atlantide è stata per noi un terreno di sperimentazione di altri luoghi dove sentirsi a casa, e di riconfigurazione delle forme di relazione e di parentela, sosteniamo le/gli occupanti dell’ex Telecom, che hanno saputo costruire una risposta reale e concreta ai propri bisogni, un’alternativa autodeterminata e organizzata dal basso, un’esperienza che va ben oltre le logiche dell'”emergenza” e dell'”accoglienza”.
Oggi l’attacco all’occupazione abitativa di via Fioravanti, ennesimo capitolo di una filiera violenta di misure repressive, vorrebbe cancellare non solo l’agibilità politica, ma anche la stessa possibilità di esistenza di questa ricchezza non assimilabile. Contro chi vorrebbe “accoglierci” nel mortifero circuito produci-vota-consuma, sentiamo la necessità di rilanciare e ricostruire alleanze fra i tessuti sociali più liberi e più giusti. Il nuovo regolamento ACER, recentemente approvato in consiglio comunale, ha introdotto il requisito della residenza da almeno tre anni e il divieto di iscriversi alle graduatorie per dieci anni a chi ha occupato stabili di proprietà ACER.Norme discriminatorie, razziste, che si arrogano impropriamente il compito di rincarare la dose su un reato già abbastanza perseguito, ci sembra, dalla giustizia penale, veicolando l’idea di un welfare moralizzatore, non più da garantire a chi ne ha bisogno ma da elargire a chi lo “merita”, e prevenendo la possibilità che la presenza di case vuote possa essere smascherata. Norme che alimentano la rivalità tra gli ultimi per renderli più deboli, più disgregati, più attaccabili e ricattabili. La linea politica nazionale e locale di un Partito che di democratico non ha nulla è assolutamente chiara a tutti: espellere gli ultimi residui di “sinistra” per riposizionarsi su una linea moderata-conservatrice, allargando sempre di più il consenso verso destra.
Nel governo di questa città, la politica ormai non esiste più: ci sono solo degli amministratori che cercano di far quadrare i conti e che si barricano dietro al rispetto delle norme e delle regole (specialmente quelle che tutelano la proprietà privata) per scrollarsi di dosso ogni tipo di responsabilità. Quando avviene uno sgombero non è mai responsabilità di nessuno: è la legge a vincere e nessuno è titolato a controbbattere. Poco importa se la legge in questione non risponde all’etica, alla giustizia, spesso nemmeno al semplice buon senso. Poco importa se i bambini e le bambine devono assistere allo spettacolo di 200 uomini in divisa che forzano il portone d’ingresso del luogo in cui abitano, del luogo grazie al quale hanno potuto adempiere al diritto/dovere all’istruzione, e vengono trascinati fuori con la violenza. Poco importa se si spazzano via decine di anni di esperienze culturali e sociali.
In questo scenario, la possibilità di un dialogo reale tra esperienze sociali e istituzioni rappresentative viene praticamente azzerata, perchè in qualunque momento può intervenire celermente, è il caso di dirlo, la mannaia amministrativa.

Lo sgombero di Atlantide ha segnato una profonda frattura non solo nel rapporto tra l’amministrazione e il mondo lgbt e femminista, tra l’amministrazione e gli spazi sociali autogestiti, ma anche nel rapporto con tutto l’ampio mondo dell’associazionismo bolognese.
Abbiamo visto usare le convenzioni come arma di ricatto, per dividere i “buoni” dai “cattivi” e criminalizzare il dissenso. Abbiamo visto usare i bandi per abbassare il costo del lavoro nei servizi sociali oper rimediare ai buchi di bilancio dei lavori pubblici. Abbiamo visto usare i patti di collaborazione per riprodurre logiche clientelari.
E’ ora che i singoli e le singole, le realtà associative formali o informali, le esperienze di autogestione, aggregazione spontanea, produzione autonoma di arte esaperi e cittadinanza attiva che non vogliono sottomettersi a queste logiche mettano in comune intelligenze e strategie per potenziare gli spazi di agibilità sociale e politica di tutte e tutti.

http://atlantideresiste.noblogs.org/post/2015/10/19/dopo-quel-muro-che-genere-di-citta/
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