Vite, saperi, corpi e desideri non si possono mettere a(l) bando

VITE, SAPERI, CORPI E DESIDERI NON SI POSSONO METTERE A(L) BANDO.

 Difficile sintetizzare una esperienza di occupazione e autogestione che si evolve da oltre 15 anni, difficile ricostruirla organicamente. Le impronte di questa storia, infatti, sono diffuse tra una moltitudine di persone, ne hanno cambiato le relazioni, il linguaggio, le azioni, andando a costituire una comunità affettiva tra diversi posizionamenti politici e soggettivi, creando nuovi e imprevisti ma solidi legami sociali.

Atlantide è il nostro comune habitat sociale, quello che abbiamo scelto di costruire.

Un habitat capace di accogliere e valorizzare le differenti forme di vita che la abitano e di garantirne la convivenza a partire dal reciproco riconoscimento. Un habitat che rifiuta vecchi e nuovi fascismi, che non ammette, né per ignoranza né per qualsiasi altra ragione, comportamenti sessisti, razzisti o lesbo-trans-omofobici.

Ora ci viene detto che tutto questo non vale, non conta.

Il Cassero di Porta Santo Stefano, che ovunque è conosciuto come Atlantide, è stato messo a bando d’imperio e assegnato a due associazioni completamente estranee alla sua storia.

Ci hanno detto che quel bando con cui cercano di spazzare via la nostra esperienza è legittimo perché è stato votato all’unanimità da tutti i partiti politici. Ci hanno provocatoriamente suggerito di candidarci e farci eleggere per far rispettare la nostra voce, la nostra storia, le nostre vite.

Perché la rappresentanza riconosce solo se stessa.

Come se la nostra storia non contasse nulla, come se non contassero nulla oltre un migliaio di messaggi firmati di sostegno e complicità, quelli delle singole e dei singoli, quelli dei gruppi, dei collettivi, delle associazioni sparse dentro e fuori i confini di questo paese.

A proposito del feticismo delle regole dispiegato ovunque in queste ultime settimane, dal comune all’università ai media, ci fa sorridere dover ricordare un fatto semplice: autogestione non significa assenza di regole. Significa invece continua rinegoziazione delle regole della con-vivenza sociale, fuori e dentro i nostri luoghi, proprio perché frutto della condivisione. E la condivisione, che ha come fulcro la materialità delle vite, è un processo continuo e aperto di incontro, confronto, a volte anche di conflitto. Non la ripetizione formale stanca e meccanica di una formula.

C’è chi si riempie la bocca di partecipazione, dialogo, democrazia, ma la proposta che abbiamo ricevuto è né più né meno la stessa che è stata data ad altre esperienze di autogestione negli ultimi mesi in questa città: “uscite da lì e poi ne parliamo”.

E’ evidente che su questo piano non può esserci dialogo, tantomeno può esserci una “trattativa”.

Per la giunta comunale e il quartiere Santo Stefano è prioritario avere femministe, lesbiche, gay, queer e punk fuori dal Cassero di Porta Santo Stefano, ma nessuno ha spiegato le ragioni di questa priorità. Sono ormai due mesi che lo chiediamo. Giocate a carte scoperte, abbiate il coraggio di dire chiaramente e pubblicamente perché ci volete fuori dal Cassero. Sarebbe almeno un po’ più onesto e si potrebbe finalmente cominciare a “discutere” di politica.

La nostra, di politica, si è sempre inserita all’interno di reti cittadine tra esperienze di autogestione. Negli anni abbiamo sempre partecipato alla difesa di spazi “liberati” in città e alla presa di spazi ancora da liberare. Sentiamo ancora “calda” la partecipazione alla mobilitazione contro lo sgombero di Bartleby, perché quello che accade agli altri spazi sociali ci riguarda direttamente. Abbiamo partecipato all’occupazione di Santa Marta, non solo per sperimentare immediatamente quello che possiamo fare collettivamente dopo uno sgombero ma soprattutto perché siamo convinte che solo attraverso queste pratiche si può dare concretezza ad un progetto di reale partecipazione che superi il teatrino della rappresentanza.

In questo momento, ci teniamo molto anche a fare chiarezza sulle parole: vogliamo parlare della politica degli sgomberi, perché anche nel caso di Atlantide di sgombero si tratterebbe, non di “sfratto”. Perché noi il Cassero l’abbiamo occupato, perché crediamo nella pratica politica delle occupazioni, e oggi, in piena crisi, ci crediamo più che mai.

Perché l’occupazione è riappropriazione di spazi, tempi e forme di vita libere. E se i dispositivi di potere cambiano nome per mimetizzarsi, è evidente che gli effetti sono sempre i medesimi e soprattutto che il progetto di società che li sostiene è il medesimo.

Perché anche l’accogliente Bologna riconosce cittadinanza alle donne, alle lesbiche, ai gay, alle e ai trans solo in quanto “oggetto” di tutela e assistenza. Noi siamo invece soggette autonome, attive e autoderminate che si autorganizzano per costruire la propria idea di città e società da protagoniste. Non ci interessa la logica dello sportellismo, non abbiamo “servizi” da offrire, non intendiamo erogare lavoro gratuito (quello che chiamano “volontariato”) per la sussidiarietà che crea profitto sulle macerie del welfare, non ci interessa la politica “associazionista” dietro cui si cela la produzione di reddito.

Perché facciamo e vogliamo continuare a fare altro.

Come femministe e lesbiche abbiamo lavorato in sinergia con altre contro la violenza alle donne per denunciare il femminicidio come crimine di stato, attuato ed avvallato dalle istituzioni stesse.

Per noi il lesbismo, nella misura in cui è dichiarato, diventa politico; non è più una esclusiva questione di orientamento sessuale ma un’impostazione generale che destabilizza radicalmente l’ordine eterosociale che istituzioni e buonsenso comune si impegnano a conservare e riprodurre. Per noi il lesbismo, soprattutto se consapevolmente politico, è un’espressione radicale di autonomia che va a vantaggio della libertà di ogni donna.

Come transfemministe e queer abbiamo scelto apertamente la politica dell’intersezione con i movimenti contro il debito e le politiche di austerity. La presenza visibile e qualitativamente rilevante di lgbtq negli Occupy americani e nelle Acampadas spagnole ci ha ricordato che la liberazione queer è lotta di classe e che non ci può essere giustizia sociale per le donne, le lesbiche, le trans e le queer senza una messa in discussione radicale dell’attuale sistema di organizzazione sociale ed economico, del lavoro, dei generi.

Come punk, l’autoproduzione è una scelta consapevole e conflittuale rispetto ad un macro-mercato che non ci appartiene e che vuole incasellare ogni aspetto della vita, della socialità e della cultura all’interno di categorie di articoli da pubblicizzare, vendere e gettare via. Come fossero e fossimo solo merci ed utenti della macchina del guadagno. Tale processo ha il duplice effetto di creare una società piramidale, basata solo su consumo e richiesta di mercato e di mercificare qualsiasi libera forma di comunicazione. Autoprodurre, in modo particolare la musica, significa creare una rete di partecipazione e collaborazione dal basso, abbattendo il confine tra lo spettatore pagante e l’artista che crea la musica e tra l’artista ed il manager. Nessuno è artista (chaos non musica, dicevano i Wretched), non esistono i manager perché non servono intermediari dell’industria discografica che censurino o indirizzino la libera espressione, nessuno è spettatore pagante ma è parte integrante di uno spazio autogestito.

Le vite, i saperi, i corpi e i desideri non si possono mettere a(l) bando.

Atlantide resta dov’è e noi con lei.

le Atlantidee r-esistenti

occupy

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